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Ulisse, il figlio di Laerte, io sono, Per tutti accorgimenti al mondo in pregio, E già noto per fama in sino agli astri. Abito la serena Itaca, dove Lo scotifronde Nérito si leva Superbo in vista, ed a cui giaccion molte Non lontane tra loro isole intorno, Dulichio, Same, e la di selve bruna Zacinto. All'orto e al mezzogiorno queste, Itaca al polo si rivolge, e meno Dal continente fugge: aspra di scogli, Ma di gagliarda gioventù nutrice. Odissea - Canto IX - traduzione di Ippolito Pindemonte |
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La ratta nave ad Itaca approdava. Il porto è qui del marin vecchio Forco, Che due sporgenti in mar lidi scoscesi, E l'uno all'altro ripieganti incontra, Sì dal vento riparano e dal fiotto, Che di fune mestier non v'han le navi. Odissea - Canto XIII - traduzione di Ippolito Pindemonte |
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In questo porto ai Feacesi conto, Dirittamente entrò l'agile nave, Che sul lido andò mezza: di sì forti Remigatori la spingean le braccia! Si gittaro nel lido; e Ulisse in prima Co' bianchi lini e con la bella coltre Sollevâr dalla nave, e seppellito Nel sonno, siccom'era, in su l'arena Poserlo giù. Poi ne levaro i doni, Ch'ei riportò dalla Feacia gente, Per favor di Minerva, e al piede uniti Li collocaro della verde oliva, Fuor del cammin, non s'avvenisse in loro Vïandante, e la man su lor mettesse, Mentre l'eroe dormìa. Quindi ritorno Fean con la nave alla natìa contrada. Odissea - Canto XIII - traduzione di Ippolito Pindemonte |
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Crucciato ei replicò: "Donna, parola T'usci da' labbri fieramente amara. Chi altrove il letto collocommi? Dura Al più saputo tornerìa l'impresa. Solo un nume potrebbe agevolmente Scollocarlo: ma vivo uomo nessuno, Benché degli anni in sul fiorir, di loco Mutar potrìa senza i maggiori sforzi Letto così ingegnoso, ond'io già fui, Né compagni ebbi all'opra, il dotto fabbro. Bella d'olivo rigogliosa pianta Sorgea nel mio cortile, i rami larga, E grossa molto, di colonna in guisa. Io di commesse pietre ad essa intorno Mi architettai la maritale stanza, E d'un bel tetto la coversi, e salde Porte v'imposi e fermamente attate. Poi, vedovata del suo crin l'oliva, Alquanto su dalla radice il tronco Ne tagliai netto, e con le pialle sopra Vi andai leggiadramente, v'adoprai La infallibile squadra e il succhio acuto. Così il sostegno mi fec'io del letto; E il letto a molta cura io ripolìi, L'intarsïai d'oro, d'avorio e argento Con arte varia, e di taurine pelli, Tinte in lucida porpora, il ricinsi. Odissea - Canto XXIII - traduzione di Ippolito Pindemonte |
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Spande sovra la cima i larghi rami Vivace oliva, e presso a questa un antro Nàiadi sacro. Anfore ed urne, in cui Forman le industri pecchie il mel soave, Vi son di marmo tutte, e pur di marmo Lunghi telai, dove purpurei drappi, Maraviglia a veder, tesson le ninfe. Perenni onde vi scorrono, e due porte Mettono ad esso: ad Aquilon si volge L'una, e schiudesi all'uom; l'altra, che Noto Guarda, ha più del divino, ed un mortale Per lei non varca: ella è la via de' numi. Odissea - Canto XXIII - traduzione di Ippolito Pindemonte |
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E con pari vaghezza i due consorti Del prisco letto rinnovaro i patti. **** De' mutui lor ragionamenti vari, Che la notte coprìa, prendean diletto. *** Tolse a dir, come i Cìconi da prima Vinse, e poi de' Lotòfagi alla pingue Terra sen venne; e rammentò gli eccessi Del barbaro Ciclope, e la sagace Vendetta fatta di color tra i suoi, Ch'ei metteasi a vorar senza pietade. Come ad Eolo approdò, da cui gentile Accoglienza e licenza ebbe del pari: Ma non ancor gli concedeano i fati La contrada natìa, donde rapillo Subitana procella, e sospirante Molto e gemente, il ricacciò nell'alto. Quindi l'amaro descriveale arrivo Alla funesta dalle larghe porte Cittade de' Lestrìgoni, e gli ancisi Compagni tanti, e i fracassati legni, Fuor che uno, sovra cui salvossi appena. Gli scaltrimenti descrivea di Circe E il vïaggio impensato in salda nave, Per consultar del Teban vate l'alma, Alla casa inamabile di Pluto, Dove s'offrîro a lui gli antichi amici, Ombre guerriere, ed Anticlèa, che in luce Poselo, e intese alla sua infanzia cara. Aggiunse le Sirene, innanzi a cui Passare ardì con disarmati orecchi; E gl'instabili scogli, e la tremenda Cariddi e Scilla, cui non vider mai I più destri nocchieri impunemente. Né l'estinto tacea del Sole armento, E la vermiglia folgore di Giove Altitonante, che percosse il legno, E i compagni sperdé. Campò egli a terra Solo, e afferrò all'Ogigia isola; ed ivi Calipso, che bramava essergli sposa, Il ritenea nelle sue cave grotte, L'adagiava di tutto, e giorni eterni Senza canizie prometteagli: pure Nel seno il cor mai non piegògli. Al fine Dopo infiniti guai giunse ai Feaci, Che al par d'un nume l'onorâro, e in nave Di rame carca e d'oro e di vestiti, All'aere dolce de' natii suoi monti Rimandârlo. Quest'ultima parola Delle labbra gli uscìa, quando soave Scioglitor delle membra e d'ogni cura Disgombrator, sovra lui cadde il sonno. Odissea - Canto XXIII - traduzione di Ippolito Pindemonte |
L'isola (che da' Greci Thiachi, da' Turchi Phiachi vien detta e hoggidì Teacchi o Cefalonia piccola universalmente chiamasi) si numerosi ne riporta i nomi, quanti furono Auttori che la descrissero; Strabone, e Plinio Itaca la chiamano; il Porcacchi, e Dionisio Afro Nericia l'appellano; Niger Val di Compagno, e Soffiano Val di Compare la dicono. Questa nel sito riguarda la Cefalonia, da quale dividesi per spazio del Guiscardo, canale di gran fondo, lungo venti miglia, largo cinque, e tre nel più ristretto; ha la propria figura irregolare più longa, che larga; di copiosi anfratti è sparso il suo continente, e quaranta miglia vanta di giro; molti porti esibisce alla commodità de' legni, tra quali il più conditionato considerasi quello di Vathi, molto fondo, assai sicuro e meglio capace; a questo poco inferiori sono li due, l'uno di Gidachi, l'altro di Sarachinicco; altri pure ve ne sono, a quali non si riflette, perchè poco, o nulla vagliono. Fu creduta l'habitazione della casta Penelope, e Patria d'Ulisse; inde certe vestiggie di presente apparenti vengono venerate da Cefaleni come fragmenti della di lui habitazione; anticamente havea una Città nominata di Plutarco Alalcomene, hora tiene solo alquanti Villaggi, numerandosi per principali, Vathi, Annoi, Oxoi. Gl'habitanti arrivano al numero di quindici mille, buona parte de quali sono fuorusciti, ed esiliati dall'Isole del Zante, Corfu, e Cefalonia. Ogn'anno eleggono i Cittadini di Cefalonia un soggetto con titolo di Capitano di Teacchi, quale non và al possesso senza approbatione pendente dall'arbitrio de' Rettori, c'hanno obbligo di trasferirs'ivi alla visita ogn'anno una volta il mese di Marzo, nel quale solo si ponno trattenere, non essendosi l'auttorità di quel Ministro, ch'in ascoltar cause, e nella decisione delle diferenze, ch'occorrer possino. Andrea Morosini, Figlio di Pietro, quale nel 1622 fu Proveditore in Cefalonia, notifica esser stata levata quest'Isola da Collegati di Michiel Figliuolo dell'Imperatore Paleologo allo stesso Imperatore, e ad'un tal Carlo Tocco di nazione Napoletana. Persona si ben rassegnata alla Repubblica, che rimetteva al giudicio de' Veneti, com'a Supremi, l'appellationi di tutte le Cause, e criminali, e civili. |